Federico Fellini - La Dolce Vita [DVD9 - Ita Rus - Sub Rus] [Tnt

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Federico Fellini - La Dolce Vita [DVD9 - Ita Rus - Sub Rus] [Tnt (Size: 7.77 GB)
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Federico Fellini - La Dolce Vita [DVD9 - Ita Rus - Sub Rus] [Tntvillage.Scambioetico]

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[font=Arial]Il gruppo SPG è lieto di presentarVi:[/font]

FEDERICO FELLINI

LA DOLCE VITA


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Viene qui presentata la versione distribuita dalla
Cinema Prestige come da locandina e menu' del DVD

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LA DOLCE VITA

Paese: Italia
Anno: 1960
Durata: 168'
Colore: B/N
Audio: sonoro
Rapporto: 2,35:1
Genere: drammatico
Regia: Federico Fellini
Soggetto: Federico Fellini, Ennio Flaiano, Tullio Pinelli
Sceneggiatura: Federico Fellini, Ennio Flaiano, Tullio Pinelli, Brunello Rondi, Pier Paolo Pasolini (non accreditato)

Interpreti e personaggi

* Marcello Mastroianni: Marcello Rubini
* Anita Ekberg: Sylvia
* Anouk Aimée: Maddalena
* Yvonne Furneaux: Emma
* Magali Noël: Fanny
* Alain Cuny: Steiner
* Annibale Ninchi: Padre di Marcello
* Walter Santesso: Paparazzo
* Valeria Ciangottini: Paola
* Riccardo Garrone: Riccardo, proprietario della villa
* Laura Betti: Laura
* Lex Barker: Robert
* Harriet White: Segretaria di Sylvia
* Ida Galli: Debuttante dell'anno
* Gianni Baghino: l'infermiere
* Audrey McDonald: Jane
* Polidor: Clown
* Alain Dijon: Frankie Stout
* Enzo Cerusico: Fotografo
* Giulio Paradisi: Fotografo
* Enzo Doria: Fotografo
* Enrico Glori: Ammiratore di Nadia
* Adriana Moneta: Ninni la prostituta
* Dominot: Travestito
* Adriano Celentano: Cantante rock
* Christa Paffgen (Nico): sé stessa
* Rina Franchetti: La madre dei miracolati
* Giò Stajano
* Anna Salvatore: se stessa
* Leonida Repaci: se stesso

Fotografia: Otello Martelli
Montaggio: Leo Catozzo
Musiche: Nino Rota
Scenografia: Piero Gherardi

Premi:

* 1 Premio Oscar 1962 (su 4 nomination): "Miglior costumi (B/N)" (Piero Gherardi)
* Palma d'Oro al Festival di Cannes 1960
* 3 Nastri d'Argento: "Miglior attore protagonista" (Marcello Mastroianni), "Miglior soggetto originale", "Migliore scenografia"
* 1 David di Donatello: "Miglior regia" (Federico Fellini)


SINOSSI

Marcello, scrittore mancato che lavora per un giornale scandalistico con la scorta di un paparazzo (fotoreporter), fa incontri ed esperienze nella Roma mondana, cinematografara e intellettuale di via Veneto e dintorni


RECENSIONE DI PIER PAOLO PASOLINI

C’è una profonda scissione, nel nostro mondo culturale, tra la critica letteraria e la critica cinematografica. Sembra strano ma il crocianesimo – abolendo la distinzione dei generi e instaurando la sola possibile distinzione tra poesia e non poesia – ha favorito una critica tecnicistica, che implica necessariamente i generi, magari non come distinzioni retoriche, ma come distinzioni stilistiche. Poiché per i crociani – ossia per i critici borghesi – l’operazione artistica è un dato unico, inimitabile e metastorico l’esame di un’opera d’arte tende a diventare tutto interno: e quando, con la critica stilistica – che discende per li rami da Croce – l’esame, disperatamente interno, si propone come funzione ultima quella di leggere nell’opera d’arte singola un’intera epoca letteraria, finisce poi col risultare soltanto un contributo a una critica sociologica o marxista. Così, poiché la critica italiana letteraria – e “specialmente” quella cinematografica sono tuttora – a livello nazionale o di massa – crociane e borghesi, ecco che il. loro esame è sempre specialistico, tecnicistico, per genere: come se l’opera d’arte fosse il prodotto di un prodigio individuale, in un laboratorio puro. E non, invece, un prodotto culturale, e storico. L’informazione letteraria e quella cinematografica sono come due fiumi che scorrono paralleli, e non confluiscono mai: quasi che in Italia ci fossero due culture, due storie. Il rimedio a questa assurda coesistenza? E uno solo, e consiste nell’impiantare criticamente, con gli stessi interessi estetici e ideologici, lo studio su un libro. o su un film, tenendo conto appunto che la differenza è semplicemente tecnica, e che l’analisi descrittiva – pur descrivendo processi espressivi diversi – ha la stessa funzione critica. La dolce vita di Fellini è troppo importante perché se ne possa parlare come si fa di solito di un film. Benché non grande come Chaplin, Eisenstein e Mizoguchi, Fellini è senza dubbio “autore”, non “regista”. Perciò il film è unicamente suo: non vi esistono né attori né tecnici: niente è casuale. Nella Dolce vita, infatti, non è riconoscibile lo stile di nessuno: non lo stile di un attore (il bravo Mastroianni, la stupenda Anita, sono un altro Mastroianni, un’altra Anita), non lo stile di un operatore, non lo stile di un montatore, non lo stile di Flaiano e di Pinelli, gli sceneggiatori. Forse si avverte appena lo stile del musicista, Rota, che appunto, fuoriesce un po’ dal sistema stilistico generale: come insomma se un Caravaggio fosse incorniciato in una cornice rococò. Poco importerebbe, del resto. Ecco, ora, se si trattasse dell’opera di uno scrittore, io partirei subito da un esame stilistico: magari mi prenderei il mio bravo campione linguistico, una frase “tolta a caso” (come si dice) dal contesto, la metterei sul tavolino del laboratorio, la smonterei e l’analizzerei. Dall’analisi stilistica potrei così lecitamente giungere alle implicazioni psicologiche, ideologiche e storiche. Esiste infatti una soddisfazione “descrittiva” (grazie specialmente alla critica di Spitzer e Auerbach e ai programmatici postcrociani) per le opere letterarie: ma non esiste quasi affatto per le opere cinematografiche. Tuttavia, almeno irrelata, vive, in tutti noi, un’idea stilistica, formatasi intuitivamente, del mondo espressivo di Fellini: e ad essa dovrò un poco affidarmi. Intanto va osservato che, nell’autore cinematografico, esiste un doppio piano di lavoro espressivo: uno strato che consiste nella preparazione degli oggetti da riprendere, e un secondo strato che consiste nella vera e propria ripresa e nel montaggio. Sarebbe come a dire che uno scrittore dovesse prima ammassare un enorme coacervo, prestabilito, di materiale lessicale, e poi lo coordinasse nella sintassi e lo montasse nel seguito narrativo. Il che in parte avviene, ma solo idealmente. Osserviamo un’inquadratura della Dolce vita: Polidor che suona la tromba. È chiaro che qui si sovrappongono due successive operazioni stilistiche: la prima è appunto la preparazione dell’oggetto da riprendere (Polidor, truccato in quel dato modo, con gilet, la tuba, la tromba, i gesti che deve fare, l’altezza a cui deve portare la tromba quando fa l’acuto ecc.), la seconda che avviene in un secondo momento; inquadratura, movimento della macchina da presa, coordinazione con le altre inquadrature. Tutti conosciamo la serie di scelte che compie Fellini lungo quello che ho chiamato il primo strato stilistico della sua opera: quello della preparazione degli oggetti da riprendere. Descriviamone qualcuna, ditali scelte: 1) Fellini usa gli attori sempre in modo stravagante, inatteso, tale da violentare la loro personalità alle radici e da costringerla a una totale reinvenzione (esempi? a dozzine: dall’ex Tarzan, all’ex cattivo Enrico Glori, dall’ex dannunziano Annibale Ninchi all’ex sexy girl Anita Ekberg). Tuttavia, con questi interpreti del tutto stravolti e deformati, coesistono interpreti di un tipo totalmente opposto: ossia dei personaggi presi tali e quali, come in un nudo documentario, dalla realtà, e innestati, con la violenza del più violento naturalismo, nell’organismo complicato della lingua felliniana. Mi riferisco a persone vere, come Laura Betti, Leonida Repaci, Anna Salvatore, ecc. 2) Fellini usa una continua dilatazione espressionistica dei costumi e degli ambienti: ma di questa dilatazione si possono distinguere almeno tre tipi: a) dilatazione puramente vignettistica (angoli caricaturali, con signore dai cappellini esageratamente singolari, con mantelli ingiustificati; b) dilatazione “d’atmosfera” tipica del cinema e della letteratura decadente (si vedano quasi tutti gli esterni di Roma, dai più eleganti ai più abbietti); c) dilatazione puramente espressiva, formalistica (si vedano le stupende immagini del miracolo, con le lampade e gli ombrelli sotto la pioggia sferzante).
Ma anche stavolta, accanto a tale dilatazione deformante, va notato che permane un certo quantitativo di naturalismo quasi documentario, da far venire in mente certi pezzi della Settimana Incom. Questo per quel che riguarda il primo strato. Quanto al secondo, quello della vera e propria ripresa e del montaggio, cerchiamo ugualmente di descrivere – sempre, purtroppo, con una terminologia approssimativa – qualche caratteristica. 1) L’inquadratura e i movimenti di macchina creano sempre intorno all’oggetto una specie di diaframma, che ne complica e rende il più possibile irrazionale e magica la sua immissione e la sua concatenazione di rapporti con il mondo che lo circonda. Quasi sempre, all’attacco di un episodio, la macchina da presa è in movimento, e i suoi movimenti non sono mai semplici: paratattici, come si direbbe parlando di letteratura. Però, spesse volte, succede che nel contesto dei movimenti di macchina sinuosamente e parenteticamente subordinati, si inserisca brutalmente una inquadratura semplicissima, quasi documentaria: una citazione di lingua parlata... Si veda per esempio l’arrivo della diva all’aeroporto di Ciampino. 2) Il fraseggio delle sequenze è ampio, spesse volte lento e circostanziato, come una pagina proustiana: ma ancora una volta va osservato che a questa operazione ne corrisponde una uguale e contraria, che spesso si giustappone. Si veda per esempio l’incontro nella chiesa tra Marcello e Steiner, che, dopo essersi dilungato fino alla lentezza narrativa quasi esasperante con cui Marcello ascolta suonare l’organo, si conclude con una visione di una rigidità fulminea un campo lungo – sulla chiesa vuota, con la figura di una donna – che quasi non fa in tempo a essere trattenuto nella retina. Lo stesso si verifica nell’episodio del padre, tutto così articolato e precisato: a cui si contrappone la clausola, un campo lungo sul tassì del padre che parte lasciando solo il figlio nella squallida strada. Queste non sono che sommarie, generiche descrizioni di alcune caratteristiche della lingua felliniana: tuttavia siamo già in grado, direi pur con tali schematiche induzioni di dichiarare quest’opera di Fellini, dal punto di vista stilistico, come appartenente in pieno alla grande produzione del decadentismo europeo. Di queste, essa ha tutti i connotati: la compiacenza fonica (che è il primo connotato del decadentismo) ha un equivalente in Fellini in una compiacenza visiva per cui l’immagine fuoriesce dalla funzione e si fa pura, con tutto l’incantesimo che ne deriva; la dilatazione semantica (il secondo connotato del decadentismo), è continuamente praticata da Fellini; non c’è un so!o significato nel suo film che si presenti come puramente strumentale: è sempre eccessivo, sovraccarico, lirico, magico, o troppo violentemente veristico: è cioè dilatato semanticamente. Continuando col parallelo che abbiamo fatto più sopra tra il primo strato stilistico dell’operazione cinematografica e la raccolta del materiale lessicale, potremmo agevolmente osservare come il lessico di Fellini abbia tutte le caratteristiche del lessico decadente: è colorito, raro, bizzarro, superscritto, con pastiches espressivi provenienti dai più diversi gusti, presi dai più diversi mondi. E lo stesso si dica del secondo strato stilistico, che abbiamo visto corrispondere alla sintassi: una sintassi appunto subordinante, ritardante, con rapidi voluti brividi di interiezioni e di sintagmi semplici, parlati. Siamo dunque di fronte a un prodotto che potremmo chiamare, più precisamente, neodecadentistico se la letteratura impegnata, e nella fattispecie il neorealismo cinematografico, contassero tanto da rendere vecchio, superato, il decadentismo storico, così da dover ricorrere all’ormai rituale proclitica rinnovante. Purtroppo il periodo dell’impegno è stato breve: il conservatorismo l’ha rapidamente circoscritto e respinto. Ora, poi, la distensione favorisce in certo modo la reazione stilistica: i comunisti stessi riscoprono il decadentismo e cercano di individuare gli elementi positivi e progressivi. Non io, però: a costo di parere, ai comunisti, settario. lo, per me, dichiaro a tutte le lettere che l’opera di Fellini segna e codifica il ritorno, energico, di un gusto e di una ideologia stilistica che hanno caratterizzato la letteratura europea del decadentismo. Tutti avrete certamente notato come la mia descrizione delle caratteristiche formali del linguaggio di Fellini, avrebbe potuto essere presa quasi di peso e riferita a Gadda. Anzi, vi sarete forse meravigliati come il nome di Gadda non venisse alla luce, quale termine di paragone del confuso senso descrittivo. Infatti: come Fellini, Gadda si compiace, a tratti, di sia pure ironiche compiacènze foniche; come Fellini, Gadda violenta i semantemi, sempre in funzione di un significato che reinventi i termini in un linguaggio tutto soggettivo, grottesco, violento, viscerale, deformante (con brani tuttavia di veristica realtà schiaffati con rabbia nel dettato); come Fellini, Gadda usa una sintassi che è per così dire, ipertassi, venata ogni tanto di clausole paratattiche; come Fellini, Gadda possiede un lessico che è il più pasticciato immaginabile. Eppure tra i due autori c’è una sostanziale diversità, malgrado tale abbondanza di concomitanze. Scusate, devo essere rapido e sommario: ma, in poche parole, direi che tale sostanziale diversità consiste nel fatto che il “pastiche” di Gadda avviene su superfici interne, mentre il “pastiche” di Fellini si dispone frontalmente su superfici esterne. È vero: anche la posizione politica di Gadda e Fellini ha qualcosa in comune, sia pure genericamente e schematicamente: tutti e due gli autori, infatti, accettano sostanzialmente le istituzioni, lo Stato e la Chiesa, non ne mettono in discussione le strutture, e le accettano quasi come dati assoluti e immodificabili: salvo poi a essere addirittura anarchici, anche se di un’anarchia tutta satirico-grottesca in Gadda, magico-lirica in Fellini, e ad esercitare una continua opposizione fondata sugli umori individuali, infantili (moralistici in Gadda, libertari in Fellini). È questa comune abnorme forma di conformismo che appunto produce nei due scrittori uno stile, che, ripeto, superficialmente, ha dei caratteri analoghi. E allora perché in Gadda, questa costruzione per superfici interne, che implica profonde sfaccettature nella realtà, approfondimenti quasi vertiginosi, e perché, invece, in Fellini questa “frontalità”, che giustappone le cose quasi sempre su uno stesso piano, come nei bassorilievi dei primitivi? Il fatto è che Gadda possiede, coscientemente, un sistema ideologico razionale: egli si è formato prima dell’italia qualunquistica e fascista: tutta la sua formazione è sotto il segno del positivismo, niente affatto provinciale, ma anzi, per la sua alta qualità, europeo – molto meno provinciale e molto più europeo di quanto sia mai stato il crocianesimo. Perciò tutta l’opera di Gadda, malgrado i folli, maniaci, ossessivi irrazionalismi che tormentano l’uomo, è dominata da uno spirito razionalistico, che sa sempre storicizzare – positivamente, magari, magari con un eccesso di ricostruzione di verità naturalistica. Egli crede nelle istituzioni statali: ma se queste vacillano continuamente davanti ai suoi occhi, sommuovendo senza sosta il suo enorme macchinario linguistico, è perché, la mente che le osserva e, dolorosamente, contraddittoriamente, le accetta, possiede razionali strumenti di critica per giudicarle.
Fellini, al contrario, si è formato durante l’Italia del fascismo, ignorante e stupida: e benché, quando doveva, Fellini sia stato antifascista,

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